La consacrazione è arrivata nel 2012 con il primo premio al Concorso Joseph Joachim di Hannover. Da allora la sua carriera è stata un crescendo di successi.
Parliamo della violinista Alexandra Conunova, già acclamata dalle platee di tutta Europa (e non solo) per una tecnica implacabile unita a una musicalità fluente e a una continua ricerca sonora.
Classe 1988, originaria della Moldavia, mercoledì 26 maggio (Conservatorio, ore 20) Conunova sarà protagonista di un concerto proposto dall’Unione Musicale: in duo con il pianista David Kadouch eseguirà un repertorio che spazia dalla musica francese a Beethoven.
La raggiungiamo in Svizzera, dove abita.
La sua biografia è un tripudio di premi prestigiosi e grandi collaborazioni. Ma se le chiedessi di isolare tre momenti particolarmente memorabili di questi ultimi anni, quali sceglierebbe?
«Direi il concerto con Martha Argerich, ad Amburgo. Poi, il concerto con Gianandrea Noseda e la Filarmonica del Teatro Regio ad Aix-en-Provence. E la collaborazione con Enrico Pace, straordinaria personalità e per me quasi un “angelo del pianoforte”».
Accanto alla sua attività di solista, lei suona spesso in ensemble cameristici. Che cosa la affascina della musica da camera e perché?
«Trovo che quella cameristica sia la forma più alta di espressione musicale, poiché ci permette di tirare fuori il meglio da noi stessi e dai colleghi con cui suoniamo. È però anche una grande banco di prova: ci chiede di fare compromessi, di temperare il nostro ego. Più l’ensemble è ristretto, più la sfida è ardua. In questi casi si scopre che il vero leader è chi sa trovare un punto di contatto e di equilibrio con gli altri. Inoltre amo la musica da camera perché in un certo qual modo ci mette a nudo, facendo emergere anche il lato fragile di noi, quello che solitamente teniamo nascosto».
A Torino, con David Kadouch, proporrà un programma che abbraccia Debussy e Ravel, però anche Beethoven. Che rapporto ha con questi autori?
«Per chi, come me, è cresciuto in un’area di influenza russa, i legami con la cultura francese sono molto forti. Inoltre, gran parte del mio percorso di studi si è svolto in Francia, sotto la guida di grandi maestri come Renaud Capuçon. Tuttora vivo nella Svizzera francese. Credo che queste assidue frequentazioni mi abbiano aiutato a entrare in sintonia con la trasparenza e con la fragilità di Debussy e Ravel. D’altra parte ho trascorso anche otto anni in Germania. Quanto a Beethoven, si tratta di una bibbia per ogni esecutore. Non esiste una ricetta per affrontarlo, ma solo un cammino che deve essere costantemente ridefinito e rimesso in discussione a seconda della propria maturità artistica».
In tre parole, che cos’è la musica per lei?
«È tutta la mia vita. Ed è il mio modo di dare e ricevere amore».
Ma è stato così fin da subito? Figlia d’arte, lei ha cominciato a studiare il violino a sei anni. All’inizio è stato più un piacere o più un’imposizione?
«Diciamo che, in un Paese dell’Europa dell’Est, non esistono molte alternative. Se nasci in una famiglia di musicisti, è automatico che anche tu diventi musicista. Gli inizi non sono mai semplici, tanto più per chi, come me, suona uno strumento ad arco. Prima di riuscire a produrre un bel suono, anche solo sulle corde vuote, ci vogliono mesi di esercizio. Ma questo poi si traduce in passione e amore. Noi musicisti abbiamo il dono unico di vivere dentro la bellezza. È come contemplare un quadro meraviglioso, ma non da semplici osservatori esterni. Di quel quadro noi diventiamo parte. Questo vale sempre, anche quando magari, dopo dieci ore di prove, siamo stremati, anche quando la vita ci porta lontano dai nostri affetti e ci chiede sacrifici. Per questo so di essere una persona privilegiata!».
Nella sua città natale, Chisinau (in Moldavia), lei ha creato la Fondazione ArtaVie (www.facebook.com/artavie) impegnata in diversi contesti sociali. Di che cosa si tratta?
«Ho lasciato la mia terra e la mia famiglia quando avevo sedici anni, per andare a studiare in Germania. Forse, inconsciamente, questo era un modo per poter tornare a casa. Ma volevo anche fare qualcosa per sostenere la società moldava e perché altri musicisti avessero le opportunità che ho avuto io. Così è nata ArtaVie, una fondazione che aiuta i giovani talenti del mio Paese, organizzando concerti, soprattutto per gruppi da camera. Ai protagonisti di questa esperienza chiedo non solo di suonare, ma anche di raccontare al pubblico qualcosa della musica che eseguono e della propria vita, perché ciascuno si senta più coinvolto. Ma l’intento di ArtaVie è anche quello di portare la musica dove solitamente non arriva: nelle case di cura, accanto ai ragazzi autistici o con altre disabilità, nei contesti dove vivono le persone più fragili e più sole. Credo fortemente nel valore terapeutico della musica!».
In questi ultimi anni, accanto a tanti successi musicali, la vita le ha dato anche la gioia di avere un bambino. Come concilia l’attività di concertista con quella di mamma?
«Cerco di vivere ciò che la vita mi offre, giorno per giorno, e di affrontare con normalità anche il mio ruolo di genitore. È vero, spesso sono lontana dalla mia famiglia, ma d’altra parte credo che per mio figlio ciò che faccio possa essere un esempio: imparerà che per raggiungere dei risultati ambiziosi bisogna impegnarsi a fondo. E che nella vita vale la pena di puntare in alto».
Lorenzo Montanaro