Da venticinque anni, Arcadi Volodos occupa stabilmente un posto di riguardo nella ristretta cerchia dei grandi interpreti del pianoforte. Il debutto fragoroso a New York, nel 1996, e poi la fitta serie di successi raccolti spesso al fianco di orchestre sontuose (Berliner Philharmoniker, Staatskapelle Dresden, Concertgebouw, Gewandhaus, Ney York Philharmonic, Chicago Symphony…) e partner eccellenti: Maazel, Gergiev Ozawa, Mehta e altri giganti del genere, se parliamo di direttori. Tuttavia la dimensione del recital, da sempre, è specialmente cara a Volodos, che vi si dedica con particolare sensibilità, curando nel dettaglio la scelta dei programmi, concedendo spazio privilegiato agli autori romantici e, tra questi, ai prediletti Schumann e Schubert, fatti oggetto di un’indagine assidua – l’austriaco, soprattutto – diventata sempre più virtuosa negli ultimi anni.
I due autori citati compaiono nella locandina del concerto con il quale Volodos torna a Torino (mercoledì 20 ottobre al Conservatorio, ore 20.30), ospite dell’Unione Musicale, a diciassette anni dall’ultima performance in città.
Maestro Volodos, Schumann e Schubert scrivono le Scene infantili e la Sonata D. 850 alla medesima età: ventotto anni. Eppure, la prima composizione viene considerata fresca e giovanile, la seconda sembra alludere alla maturità estrema, al pari delle ultime sonate schubertiane. Come mai, secondo lei?
«Non credo che nel confronto conti l’età, ma piuttosto il contesto creativo nel quale i due compositori sono immersi. Sappiamo come negli ultimi anni della sua breve vita Schubert si stesse quasi abituando all’idea della morte. Sentiva la fine vicina e inevitabile. Il dolore e la sofferenza, così, diventano parte del suo quotidiano: la bellezza sublime e trascendente, l’eroismo intimo (ben diverso da quello beethoveniano) e il dolore che permeano i suoi ultimi lavori sono riflesso di un tragico destino. Non è la maturità che stupisce nel giovane Schubert, ma la sua capacità di filtrare l’esperienza della morte e collegarsi al divino. Dall’altra parte, invece, troviamo Schumann: il suo lavoro per “bambini”, in realtà, ne mostra il lato introspettivo e nostalgico, ai margini del sogno perso per sempre… È un altro universo, naturalmente, un’altra esperienza di vita e un altro percorso rispetto a Schubert».
Parliamo di Kinderszenen: quanto conta, in questa musica, l’aspetto letterario? Quanto è importante, per l’interprete e per l’ascoltatore, prendere consapevolezza del mondo poetico di Schumann?
«Sappiamo tutti di come la letteratura abbia avuto un ruolo importante nell’alimentare l’immaginazione di Schumann. Da grande lettore e saggista, il compositore traeva ispirazione da poesie e romanzi. I titoli delle opere e i commenti che apponeva stanno a indicarlo. Ma qualunque sia l’origine delle sue creazioni, per me Schumann rimarrà sempre grande al di là del mondo poetico e fantasioso di provenienza. La sua musica non può essere ridotta a descrizioni letterarie, e l’esperienza puramente musicale appare assai più coinvolgente».
Il suo percorso intorno a Schubert si può considerare una sorta di work in progress? Come è cambiato il suo modo di leggere l’opera schubertiana, soprattutto quella dell’ultimo periodo?
«Busoni una volta ha detto che la vita è troppo breve per pretendere di imparare l’Hammerklavier di Beethoven. Questo è esattamente quello che provo al cospetto della musica di Schubert: è un viaggio che dura tutta la vita… e io sono lontanissimo dalla meta finale».
Cosa distingue e cosa avvicina, nella sua opinione, la Sonata D. 850 alle ultime tre grandi Sonate di Schubert (D.958, 959, 960) dal punto di vista formale ed emotivo?
«Stiamo parlando dell’ultimo tassello della trilogia di sonate (in do maggiore, la minore e re maggiore) scritta nel 1825. Seguiranno la Sonata-fantasia in sol maggiore D. 894 e, infine, le ultime tre sonate che citava lei, composte negli ultimi mesi di vita. Qui, in effetti, già compare una certa tendenza al genere epico, l’aspirazione ad un tempo espanso che trascenda la vita reale per sfiorare l’esistenza metafisica. Nonostante il rigore della forma in quattro movimenti e la costruzione molto rigorosa, nella Sonata D. 850 Schubert sembra già lasciare spazio allo spirito della Fantasia».
Di lavori come questi, si tende spesso a porre in evidenza l’aspetto virtuosistico. Come intende, nel repertorio romantico, il concetto di virtuosismo?
«Io non interpreto mai il virtuosismo in termini di dimostrazione. Per me è un mezzo finalizzato a rendere l’immagine musicale, dunque vive al servizio di quest’ultima. E ciò vale qualunque sia l’opera, il compositore o il repertorio considerati».
Si riprende a suonare, a lavorare a contatto con il pubblico. L’esperienza pandemica che stiamo attraversando ha cambiato il suo modo di rapportarsi con gli ascoltatori?
«La pausa indotta dal virus per me ha rappresentato un’esperienza unica di silenzio e riflessione. Non vorrei apparire poco rispettoso del dolore delle famiglie che hanno perso i loro cari, cui sono molto vicino Ma, se devo parlare della mia personale esperienza, questo è stato il periodo migliore della mia vita. Sono riuscito a godermi la famiglia e la mia casa, ho ritrovato la magia dei tramonti ogni sera, la compagnia di mia figlia. Torno ai concerti con un po’ di nostalgia per quest’anno così diverso. Ma sono ovviamente felice di regalare al pubblico rinnovato entusiasmo e contagiosa freschezza».
Torna in Italia, torna a Torino: quale importanza ha avuto e ha, nella sua carriera, il nostro Paese?
«Un’importanza enorme, sul piano emotivo. Il vostro è il paese più bello e – per storia – più grande d’Europa, il cuore della nostra civiltà… Non posso che essere felice di essere di nuovo in Italia».
Stefano Valanzuolo