«Da Bach a Respighi e Debussy: il nostro itinerario musicale scandito di 100 in 100 anni»
Intervista a Sergey Khachatryan

Sono passati più di dodici anni da quando l’Unione Musicale ebbe ospiti Sergey e Lusine Khachatryan, allora giovanissimi. Nel frattempo, i due fratelli musicisti armeni (violinista lui, pianista lei) hanno accumulato esperienza e successi internazionali, dal vivo e in disco, da soli e in coppia, senza aver ancora superato – né l’uno né l’altro – la fatidica soglia dei quaranta.
Il concerto che li vedrà ospiti del Conservatorio Giuseppe Verdi, il prossimo mercoledì 18 maggio (ore 20.30), fa a meno della scaramanzia e intorno ad un numero, il 17, costruisce l’intero programma…
«L’idea – spiega Sergey – si deve ad un caro amico mio e di Lusine, direttore musicale del Brucknerfest di Linz, che ci chiese, tempo fa, di immaginare un programma tutto costruito intorno a lavori scritti nel 1917. Da lì, poi, il progetto si è trasformato».

Come e perché?
«Semplicemente ci è sembrato bello ampliare il respiro di quella proposta, andando oltre il dato curioso. Il 1917, però, ci è servito come punto di partenza, grazie a un pezzo che conoscevamo bene per averlo eseguito molte volte, ossia la Sonata di Debussy. Dopo di che, è stato il turno di Respighi…».

Proprio la Sonata di Respighi, guarda caso, è dello stesso anno…
«Non è un caso, no; l’abbiamo cercata. E ne siamo rimasti affascinati: una vera rivelazione. È un pezzo di grande complessità, solido e potente sul piano strutturale. In questo senso può far pensare alla Sonata di Franck, ma poi ha una sua cifra specifica originalissima».

Conosceva già la musica di Respighi?
«Ne ho sempre apprezzato le doti di orchestratore, così evidenti nella trilogia romana; ma questa Sonata ha uno spessore cameristico e un tono accattivante che la rendono speciale. È un pezzo potente, con varie possibilità di lettura».

Si può definire un’opera nello stile italiano, secondo lei?
«Dipende cosa s’intenda per stile “italiano”. Se si pensa a una cantabilità di tipo teatrale, allora proprio no. Siamo al cospetto di un autore dalla mentalità europea, aperta alle suggestioni della musica francese e nel contempo devotamente attento alla lezione brahmsiana. Una composizione densissima di riferimenti e contenuti».

Torniamo al progetto “17”: come si arriva a Schubert?
«Inseguendo le bellezze di un capolavoro come la Sonata in la maggiore, pagina orgogliosamente fuori dal cono d’ombra di Mozart e Beethoven. Io e Lusine cercavamo un brano che consolidasse il programma, indipendentemente da date o altro. Ma quando abbiamo scoperto che la Sonata schubertiana è del 1817, abbiamo creduto a un segno del destino…».

E avete deciso di continuare a giocare…
«Sì. Per dare completezza al tutto, oltre che per assecondare il nostro gusto, a quel punto serviva un tassello barocco. E la Ciaccona è sembrato un riferimento inevitabile, per vari motivi…».

A voler essere pignoli, qualcuno data il brano di Bach al 1720…
«È vero. Diciamo che ci siamo presi una piccola licenza. Ma la presenza della seconda Partita rafforza la simmetria del programma: si comincia con una Ciaccona, appunto, e si finisce con una Passacaglia, quella di Respighi. Due strutture apparentate; come fratello e sorella, appunto. In modo da chiudere il cerchio, restituendo al pubblico l’immagine di un viaggio attraverso il tempo».

I lavori in locandina sono scelti per la loro bellezza o per la capacità di rispecchiare modi e mode dell’epoca cui appartengono?
«La forma conta, certo; ma è la valenza storica e simbolica di questi pezzi a renderli specialmente rappresentativi. La Sonata di Schubert, per esempio, è il manifesto di un certo gusto romantico, classico e colto. E Debussy trasuda di allusioni pittoriche che rimandano all’impressionismo. Non è stato facile attribuire a quattro compositori il ruolo di testimonial d’epoca, ma molto stimolante».

Che tipo di sodalizio è quello formato da un fratello e una sorella felicemente sospesi tra l’attività solistica e i concerti in duo?
«Il dialogo tra pianoforte e violino conduce a una dimensione ibrida. Cameristica, per certi versi, ma tale da non sottrarre a ognuna delle due voci la propria autonomia. Il senso di intimismo sotteso ad un recital solistico o alla performance di due partner molto affiatati non ammette compromessi. Quando si suona con l’orchestra, invece, bisogna mediare tra troppe variabili. Ecco, con Lusine sappiamo sempre di poter arrivare al risultato che io e lei abbiamo in testa sin dall’inizio».

L’affermazione in vari concorsi importanti, come il “Sibelius” e il “Reine Elisabeth”, ha contribuito a lanciarla sulla scena internazionale: è una via obbligata verso il successo?
«Assolutamente no, ma mettersi alla prova in competizioni del genere serve a testare le proprie capacità, tecniche e nervose. Il problema è che, oggi, molti di questi concorsi stanno perdendo di credibilità, perché gestiti spesso da business men che con la musica, quella vera, non hanno granché da spartire. Ed è un peccato».

Il Covid e la guerra stanno ferendo il mondo. Cosa può fare di buono la musica?
«Può aiutare a sopportare il dolore, questo sì; ma non illudiamoci che cambi la testa e la coscienza delle persone. Passata la bufera della pandemia – speriamo prestissimo – temo che ognuno riprenderà le vecchie abitudini, continuerà a correre e ad affannarsi dietro a chissà che, a chissà chi. La musica resta una parentesi tra gli affanni, ma non ha il potere di risolvere i problemi».

Stefano Valanzuolo