«Il violoncello piccolo? Una scoperta deflagrante!»
Intervista a Mario Brunello

Tra i molti strumenti che stimolarono l’attenzione creativa di Johann Sebastian Bach, il “violoncello piccolo”, così indicato dall’autore, compare inizialmente nelle cantate risalenti al primo periodo di Lipsia, utilizzato per accompagnare le arie solistiche virtuosisticamente più ardite. La qual cosa testimonia della rilevanza attribuitagli da Bach e, allo stesso tempo, del potere di seduzione ricavabile dal suo impiego. I secoli successivi avrebbero, tuttavia, relegato nel dimenticatoio questo strumento, al pari di altri.
«Da un certo momento in poi – spiega Mario Brunello – la letteratura per strumento ad arco si compatta intorno a quattro strumenti canonici: il violino, la viola, il violoncello e il contrabbasso. Tutte le molte altre voci in auge nel Sei e Settecento di fatto spariscono, ed è un peccato sul piano della varietà di scrittura e ricchezza di suono».
Per riparare a questo “peccato”, Brunello ha intrapreso un affascinante percorso discografico (per Arcana) in cui rilegge le tre Sonate e tre Partite bachiane per violino solo utilizzando, appunto, il violoncello piccolo, «che non è – chiarisce il musicista veneto – lo stesso strumento per cui Bach scrisse la sesta delle sue Suite: quello è a cinque corde, più diffuso; questo ne ha quattro e si potrebbe dire, in pratica, un violino grande, un violino “tenore”. Del violino, infatti, ha la stessa accordatura, ma un’ottava più bassa».

Dal disco alla performance dal vivo, il passo, per un interprete generoso e entusiasta quale è Brunello, diventa naturale: a Torino, ospite dell’Unione Musicale al Conservatorio, il violoncellista proporrà in concerto, in due appuntamenti successivi (mercoledì 9 e mercoledì 16 giugno, ore 20) le Sonate 1 e 2 (prima serata) e le Partite 1 e 3 (seconda serata) insieme alle Suite 5 e 6.

Per un violoncellista illustre, cresciuto nel culto delle Suite, in fondo è un po’ come entrare nell’universo bachiano da un’altra porta?
«Forse no. La porta, cioè, è sempre la stessa, dal momento che Bach ammette solo accessi principali. Ma questo approccio consente di scoprire un lato nascosto della sua produzione geniale, la classica altra faccia della luna. Se nelle Suite, cioè, l’autore procede per sottrazione, con intelligenza da genio assoluto, nelle Sonate e Partite l’artificio viene restituito per intero. Il violoncello, rispetto al violino, ha altri pregi (penso alla profondità di suono), ma è chiaro che a certe soluzioni formali, per motivi tecnici oggettivi, non possa accedere. Di fatto, dovremmo dire che manca un dito».

E sul piccolo, invece?
«Sul piccolo, l’estro bachiano trova risoluzione possibile. Intendiamoci: lo strumento non risolve fino in fondo i problemi di scrittura, ossia non può sostituirsi in toto al violino, ma rende le cose magicamente più facili e originali all’ascolto».

Né trascrizione, né trasposizione quindi…
«No: questa è semplicemente una lettura plausibile e interessante. E del resto, ogni volta che qualcuno esegua Bach al pianoforte, sarebbe stucchevole fermarsi a disquisire sui termini. Stiamo parlando di due strumenti – il piccolo e il violino – che definirei fratelli, più che cugini. “Violino tenore”, lo chiamavano pure all’epoca, non a caso».

Succedeva che, all’occorrenza, lo suonassero anche i violinisti…
«In due delle nove Cantate composte da Bach negli anni Venti, a Lipsia, la parte del violoncello piccolo (di accompagnamento al soprano) era scritta nei violini primi. Ma una differenza sostanziale di stile, evidentemente c’è: il violinista, per prassi, poggia l’arco a partire dalla corda più acuta. Il violoncellista da quella più grave. Perciò, quando parlo di questo progetto amo dire che riflette il mio approccio “dal basso” a Sonate e Partite».

Diversamente che in disco, dal vivo, a Torino, suonerà anche le Suite…
«L’ho fatto per cercare di mostrare al pubblico come i due mondi sonori bachiani si integrino in maniera complementare, infatti eseguirò le Suite con lo strumento classico».

A proposito del “piccolo”, lei parla di uno strumento dalla voce androgina. Vengono in mente i castrati: il periodo storico è quello…
«Sì, è giusto. Anche i castrati, così importanti per lo sviluppo del melodramma, scomparirono dalla circolazione nel volgere di pochi anni, soppiantati dai quattro registri vocali in voga ancora oggi. Com’è successo con gli archi. Il “piccolo” lo paragonerei per timbro ad un controtenore».

In fondo, autori come Bach sceglievano lo strumento un po’ a seconda delle circostanze…
«…E degli interpreti che avevano a disposizione. Tante classificazioni sottili vengono dopo. Per esempio, Boccherini utilizzerà due strumenti a seconda dell’impiego solistico o d’assieme».

Ma il violoncello piccolo è roba da solisti o da musicisti d’ensemble?
«Per le caratteristiche di brillantezza e agilità che ha, direi decisamente solistico. Il suo utilizzo apre la strada a una polifonia ricchissima, spesso con fughe a quattro voci. All’esecutore e al pubblico trasmette un senso di completezza corroborante. Per me, la sua scoperta ha avuto un effetto deflagrante, aprendomi un nuovo mondo sonoro e una nuova prospettiva artistica!»

Dobbiamo immaginare, allora, che il progetto possa avere un seguito…
«Ho altri due ambiti bachiani da esplorare con il “piccolo”: quello delle sei Sonate per violino e cembalo e quello dei Concerti per violino, a loro volta ricavati, di frequente, da altri strumenti».

Il violoncello piccolo che utilizza è un originale o una copia?
«Ho avuto il privilegio di suonare, in varie occasioni, un Amati del Seicento, che chiamo il “Maradona degli strumenti”, con un colore irripetibile: la copia che uso è stata costruita dal liutaio Filippo Fasser su quel modello e funziona molto bene, rendendo perfettamente l’idea musicale».

Stefano Valanzuolo