«L’educazione salverà il mondo».
Intervista al percussionista Simone Rubino

Marimba, vibrafono, woodblocks, bonghi, tamburi di ogni tipo. Dietro all’armamentario di strumenti che il percussionista ventinovenne Simone Rubino domina con destrezza prodigiosa e infaticabile atletismo in ogni suo concerto, si nasconde l’entusiasmo di un talento ormai consacrato che non conosce confini.

Dopo aver vinto, giovanissimo, il concorso ARD di Monaco nel 2014 e ricevuto il Crédit Suisse Young Artist Award nel 2016, Rubino non ha più smesso di infilare collaborazioni con importanti orchestre, direttori, solisti, e di sorprendere le platee di mezzo mondo grazie ai suoi programmi basati su sperimentazioni e audaci accostamenti di classica e contemporanea.
Non farà eccezione il recital che mercoledì 20 aprile lo vedrà ritornare all’Unione Musicale con pagine di Bach, Cangelosi, Curtoni, Xenakis e Gerrasimez, dopo il concerto nel 2018 accanto alle sorelle Labèque e al collega Andrea Bindi.

Maestro Rubino, perché la combinazione di generazioni, idee e stili lontani è così frequente nei suoi impaginati?
«È una necessità. Nonostante esistano dalla notte dei tempi, le percussioni si sono affrancate dalla loro secolare dimensione ritmica soltanto a partire dal Novecento. L’ingresso nella musica “colta” ne ha ampliato le possibilità espressive, le capacità timbriche, il repertorio. Ma il processo non è stato indolore: l’apertura della musica occidentale alle nuove frontiere del rumore e della ritmica impulsiva pura, dopo la Seconda scuola di Vienna, ha limitato il campo d’azione delle percussioni amplificando per lo più il naturale “verticalismo” di questi strumenti. Una marimba o un vibrafono possiedono però anche una natura orizzontale, armonica, così come nell’uomo coesistono il maschile e il femminile. Ecco perché mi piace combinare composizioni che parlano la lingua della sperimentazione più accesa alla prosodia barocca. Se Bach vivesse ai giorni nostri, avrebbe sicuramente composto una sonata o una suite per uno strumento etereo come il vibrafono».

Crede che il futuro della musica sia nelle percussioni?
«Il futuro non possiamo prevederlo, ma proviamo a interpretare il presente. La crisi globale che stiamo vivendo ha spinto alcuni compositori a rinchiudersi in un hortus conclusus sempre più elitario. Molti sembrano convinti che per far giustizia della nostra confusione culturale basti una musica diversa, concettuale, marchiata dalla libertà assoluta: libertà dalle regole tonali, libertà di improvvisare o scrivere tutto. Ma non possiamo sovrapporre incessantemente nuove forme scavando in una miniera già esaurita, ad un certo punto bisogna cercare altrove. Se la musica è sopravvissuta fino ad oggi è perché, più di ogni altra arte, produce il suo effetto senza richiedere inquadramenti filosofici. La musica è innanzitutto sentimento, e le emozioni hanno salvato l’uomo dall’estinzione. È qui che si gioca il futuro delle percussioni».

Che valore ha la componente spettacolare nelle sue performance?
«Non nasce dall’esigenza di riempire le sale da concerto, è la grammatica base di ogni percussionista. La natura stessa di questi strumenti richiede una prassi esecutiva di impronta coreografica: ogni percussione ha una propria tecnica, una diversità nel tenere le bacchette, nel muovere le braccia e le dita delle mani, che non può essere nascosta. Si tratta di valorizzare la naturalezza di movimenti che nascono da una necessità di emissione del suono. I suonatori giapponesi di taiko, ad esempio, si allenano per anni a percuotere i loro tamburi giganteschi con la flessibilità e la coordinazione di tutte le parti del corpo. È impensabile separare quest’arte ancestrale dalla danza, dai costumi, dai movimenti teatrali, dalla ritualità».

Negli ultimi anni ha affiancato alla carriera solistica un’intensa attività didattica alla Haute École de Musique di Losanna e alla Universität der Künste di Berlino. La predilige?
«Educare è il mestiere più importante che esista, lo considero una vera e propria missione. I recital solistici e le collaborazioni con le grandi orchestre rappresentano l’aspetto divertente della mia professione. Sento invece una responsabilità maggiore come educatore. Il filosofo Umberto Galimberti afferma che l’uomo, non avendo istinti, si distingue dall’animale perché ha bisogno di essere educato: spetta alla società completare l’opera di crescita dell’individuo, fornendogli le conoscenze che non ha. I tempi incerti e difficili che stiamo vivendo dimostrano però che la civiltà occidentale è in declino. La sensazione di impotenza, il disorientamento rispetto ai fatti del mondo, l’angoscia verso il futuro hanno preso il sopravvento. Possiamo arginare in qualche modo questa deriva? Io credo di sì, educando chi ha davvero la possibilità di fare la differenza: i giovani. Solo coinvolgendoli in una visione a lungo termine miglioreremo le cose».

Valentina Crosetto