Joaquin Achúcarro e Daniil Trifonov. Due generazioni di pianisti, due filosofie del mondo

Fino a non molti anni fa, c’erano molti ragazzi in Spagna che scappavano di casa nell’illusione di diventare toreri. Raccoglievano in un fagottino, una maletilla, le proprie cose e si aggiravano nei dintorni delle principali plaza de toros, sperando di cogliere l’occasione di mettersi in mostra e di coronare il loro sogno di adolescenti. La gente del mestiere li chiamava maletillas, con un miscuglio di tenerezza e di fastidio, perché i più incoscienti di loro erano pronti a mettere a repentaglio la propria vita, scavalcando il parapetto dell’arena per gettarsi davanti al toro, muniti di una rudimentale mantilla, nella speranza di riuscire a fare almeno un paio di mosse prima di venire arrestati dalla Guardia Civil.

Joaquin Achúcarro, alla veneranda età di 86 anni, si vedrebbe ancora così, «un maletilla en busca de una oportunidad», se la pioggia di continui e prestigiosi riconoscimenti non gli ricordasse impietosamente di avere i capelli bianchi. Sentirsi maletilla, tuttavia, non è questione di età, ma di adrenalina prodotta dall’avvicinarsi della sfida con se stessi. È una filosofia del mondo profondamente radicata nell’anima spagnola, che Achúcarro incarna in maniera perfetta, anche se ha sempre vissuto come un cittadino del mondo, pur con la maletilla sotto braccio. Il programma del suo recital mette in luce il suo hidalguismo artistico, con una parte dedicata all’immaginario spagnolo e l’altra occupata dal ciclo dei 24 Preludi di Chopin, un lavoro che Achúcarro ha messo in repertorio solo da pochi anni, sempre alla ricerca di una sfida nuova da affrontare.

Daniil Trifonov, viceversa, non ha proprio nulla del maletilla. Fin da bambino era evidente che si trattava di un predestinato, e non tanto per la vecchia storia del dentino da latte caduto proprio mentre teneva, a otto anni, il suo primo concerto da solista con un’orchestra, ma per l’incredibile maturità musicale dimostrata da quel sottile ragazzino siberiano in ogni zona del repertorio, oltre che ovviamente per la sbalorditiva padronanza tecnica. La carriera pianistica di Trifonov, insomma, era segnata fin dagli inizi, rimaneva solo da scoprire quando e con quanta ampiezza sarebbe sbocciata.

L’Unione Musicale ha avuto il merito e l’intuito d’invitare precocemente il fuoriclasse russo nelle sue stagioni, e adesso è ripagata da una fedeltà che consente al pubblico di Torino il privilegio di seguire in maniera costante l’evoluzione artistica di una delle poche e indiscusse superstar del pianoforte d’oggi.

Oreste Bossini