Pierre-Laurent Aimard: il mio concept concert sul tema della Fantasia

Se fossimo ancora negli anni Settanta, questo sarebbe un “concept concert”, sulla falsariga di quei “concept album” che furoreggiavano nelle classifiche dei 33 giri. Ossia, un concerto a tema, perché è indubbio che il programma messo insieme da Pierre-Laurent Aimard per il suo recital al Conservatorio di Torino (mercoledì 6 aprile, ore 20,30) nella stagione dell’Unione Musicale verta intorno ad un argomento specifico, che poi è anche un archetipo di scrittura musicale: la Fantasia. E ci vuole davvero un interprete colto e intelligente come Aimard per sviluppare un progetto che non smarrisca coerenza attraverso quattro secoli di produzione e illumini i nessi accattivanti tra un pezzo e l’altro…

Quante diverse accezioni, musicalmente parlando, può avere il termine “Fantasia”? Come cambia il concetto stesso di Fantasia passando dallo stile barocco a quello classico…?
«Questo programma prova a svelare quanta distanza possa esistere tra composizioni etichettate nella stessa maniera e quante affinità, al contempo, colleghino pagine di periodi lontani. L’elemento che accomuna tutti i brani è l’aspirazione alla libertà. I compositori coinvolti nel programma liberano la propria immaginazione per porla al centro del processo creativo. Ciascuno lo fa a modo suo. Sweelinck, per esempio, nella Fantasia chromatica sembra operare una transizione da un’epoca all’altra, lasciando che un virtuosismo di stampo barocco si innesti sempre di più sul tessuto polifonico di tipo rinascimentale. Se parliamo di Beethoven, invece, notiamo come il compositore nell’op. 77 quasi metta da parte le proprie virtù di grande architetto di musica per privilegiare, con esiti imprevisti, l’estro dell’improvvisatore».

A proposito di improvvisazione: quanto conta questo elemento nelle Fantasie di Mozart?
«Nell’opera di Mozart – e mi riferisco alle Fantasie K. 397 e, soprattutto, K. 475, perché quella in fa minore è solo un frammento e la K. 396, a parte il titolo, è trascrizione di una Sonata per violino e pianoforte – ciò che colpisce è lo straordinario percorso che l’autore compie attraverso le tonalità. Siamo ben lontani dunque dallo schema di modulazione imposto dalla forma-sonata o, ancora di più, dal meccanismo consueto di  tema e variazioni».

Secondo lei, quanto la creazione mozartiana dipende dal tipo di strumento su cui si attui?
«Secondo me un legame può esserci, ma non è certamente decisivo, perché Mozart agisce sempre come compositore di sintesi assoluta, votato in maniera sublime alla musica e libero dai vincoli dello strumento».

Nel suo recital di Torino compare una Fantasia di Carl Philipp Emanuel Bach tra due pagine di Mozart: c’è un filo rosso preciso a unire questa parte di programma?
«Il filo rosso di riferimento vorrei che si percepisse in tutto quanto il concerto, a prescindere dall’ordine di esecuzione dei pezzi. È lo spirito complessivo quello che conta. Ma venendo alla domanda, direi che, contrariamente a quanto si possa credere, è soprattutto Beethoven ad ispirarsi a Carl Philipp Emanuel Bach, maestro riconosciuto della Fantasia. Il nesso va colto nella ricerca di una spontaneità che ricorda da vicino l’improvvisazione, nelle modulazioni sorprendenti, nella felice discontinuità del discorso».

Come si colloca nel programma della serata Musica Stricta di Volkonsky?
«Volkonsky, in questo pezzo (che, non a caso, nel sottotitolo evoca una “Fantasia ricercata”) ritorna alle origini stesse della Fantasia, che alternava passaggi polifonici elaborati ad altri improvvisati. Qui, tuttavia, si assiste all’osmosi piuttosto che alla discrepanza tra questi due universi espressivi. Nel terzo movimento, per esempio, l’autore sa conciliare l’ordine seriale (attraverso deliberati giochi di simmetria) con un discorso che diventa via via più chiaro ed evidente».

Lei è un pianista di riferimento per tanta musica del Novecento e anche contemporanea. Con George Benjamin, in particolare, ha un rapporto di collaborazione forte e costruttivo…
«Sono molto legato a George, sin dai tempi dei nostri studi al Conservatorio di Parigi, e ho potuto seguirne tutti i progressi. Sono rimasto impressionato dalla dimensione polifonica che la sua produzione ha assunto una ventina di anni fa. Quando però suono la sua Fantasy on lambic rhythm, pagina degli anni Ottanta, a colpirmi è la ricchezza dei colori. Mi viene in mente sempre il pianista George Benjamin, che amava improvvisare al pianoforte sulla proiezione di film muti».

Qualche volta, per proporre musica contemporanea, diventa utile alternarla in programma a pezzi ben più famosi e classici…
«È vero, la presenza di opere conosciute rassicura l’ascoltatore e gli fa da riferimento. A volte contribuisce a instaurare un clima di fiducia tra ascoltatore e pubblico, predisponendo la mente di quest’ultimo alla scoperta».

Il suo recital di Torino, in fondo, potrebbe assomigliare ad una lezione di storia della musica…
«Il programma rappresenta, naturalmente, un invito alla riflessione, grazie a questo viaggio-confronto attraverso le epoche. Ma credo anche che funzioni come un gioco divertente. Dal mio punto di vista, riflessione e piacere non sono mai concetti in contraddizione. Il rischio, in un ambiente troppo conservatore, è che il pubblico si annoi e la curiosità si sclerotizzi».

Crede ci sia bisogno di inventarsi qualcosa che smuova il rito standard del concerto e accresca la curiosità intorno alla musica classica?
 «Il ruolo dell’interprete è proprio quello di stimolare la curiosità del pubblico, di arricchirne l’orizzonte artistico e la conoscenza delle opere. Se fosse vero che una parte del pubblico sta perdendo interesse rispetto alla musica, bè questo sarebbe colpa di noi esecutori! Ma chi dice che sia così?».

Stefano Valanzuolo