Il progetto Schumann giunge al traguardo.
Intervista a Giorgio Pugliaro

Seguire un’integrale musicale non è poi molto diverso da comprarsi un volume dei Meridiani Mondadori o simili opera omnia: hai l’occasione di conoscere un autore in modo esclusivo, di fartene un’idea più precisa di quanto possa accadere da un ascolto/lettura occasionale.
Avviata due anni fa al Teatro Vittoria, giunge ora a compimento l’integrale della musica da camera di Robert Schumann: sedici racconti/concerti suddivisi in due volumi/stagioni, portati a compimento grazie alla collaborazione del Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Torino da un “casa editrice” specializzata come l’Unione Musicale. Ne parliamo con il suo direttore artistico, Giorgio Pugliaro.

Com’è nata l’idea dell’integrale Schumann? E com’è andata l’esperienza con il Conservatorio?
«La scelta di Schumann e della modalità di realizzazione di questa serie monografica non sono casuali: l’articolazione del suo catalogo è talmente variegata e complessa che sarebbe stato molto più difficile realizzarla con dei concerti “normali”, in primis per la difficoltà di incontrare la disponibilità di artisti in carriera a confezionare programmi non a serata intera e/o ad assetto variabile, cioè con organici differenti all’interno della stessa serata. Grazie alla collaborazione con il Conservatorio siamo invece riusciti a farlo in tempi e modi molto contenuti.
Altra considerazione fondamentale è che la produzione di Schumann ha una posizione veramente centrale nello sviluppo del repertorio cameristico, perché “verso di lui” converge tutto il Classicismo e “da lui” parte tutto il Romanticismo. Per cui è un autore che riveste una funzione in un certo senso educativa, sia nei confronti del pubblico sia nei confronti degli esecutori, elemento che ha reso questa collaborazione con il Conservatorio particolarmente proficua.
Non ultima la constatazione che i giovani artisti che si sono esibiti hanno un livello molto alto: diversi di loro non avrebbero sfigurato in un concerto della stagione principale!»

Come funziona la collaborazione, come vengono individuati gli interpreti e il loro abbinamento con le composizioni?
«Tutto funziona grazie alla disponibilità del direttore del Conservatorio, Marco Zuccarini, e del vicedirettore, Claudio Voghera. Con loro cerchiamo innanzitutto di lavorare con parecchio anticipo, per dar modo ai docenti e ai loro allievi di montare i concerti compatibilmente con i loro programmi di studio: ci sono brani che possono impegnarli, benché non continuativamente, anche per un anno.
Abbiamo poi all’interno della Scuola una “quinta colonna” in Antonio Valentino, che è docente di musica da camera ed è in continua relazione con tutti i colleghi docenti di strumento: lui ci aiuta nell’ordinare i pezzi e gli interpreti, valutandone il grado di maturazione rispetto all’impegno previsto. A tutti questi ragazzi, diplomandi o diplomati che siano, viene offerta un’esperienza professionale sotto tutti i punti di vista, anche da quello contrattuale».

Realizzare questo progetto al Teatro Vittoria che cosa comporta di diverso dal solito?
«Se al Conservatorio ci vai per le nove e ascolti un concerto tradizionale della durata di un’ora e tre quarti con un quarto d’ora di intervallo, al Teatro Vittoria ci vai prima, senti una guida all’ascolto in cui conosci un po’ i pezzi e un po’ gli interpreti, ascolti un concerto che dura di meno perché nasce appunto per focalizzarsi su alcune specifiche composizioni. E in tutto questo si vive una varietà di atteggiamenti e di presentazioni anche sotto il profilo interpretativo, perché spesso, com’è accaduto in questa maratona Schumann, gli esecutori si avvicendano durante la serata. Al Vittoria c’è in generale un approccio diverso, complementare e non migliore dell’altro: ciò che rende l’offerta migliore è che possiamo proporre entrambi gli approcci».

Come risponde il pubblico a questo tipo di proposta?
«Molto bene. Le persone apprezzano lo stile più friendly, meno formalizzato, e il fatto che si parli e ci si conosca anche prima del concerto vero e proprio: si crea un contatto, una conoscenza diretta fra persone. È un fenomeno che recupera felicemente uno spirito originario della musica da camera: è nella natura di un trio o di un quartetto che ci sia una certa permeabilità tra chi ascolta e chi esegue. Ritengo che realizzare concerti in modo esclusivamente “museale”, in un modo cioè in cui solamente si espone il repertorio, sia un po’ rinunciatario; oggi abbiamo il dovere di coinvolgere il pubblico in forme diverse, come peraltro avviene proprio in certi musei: penso per esempio al nostro Museo Egizio, che ha saputo innovarsi nelle modalità di rapporto con il pubblico senza intaccare minimamente né la qualità scientifica né l’identità dell’istituzione».

Le guide all’ascolto sono uno dei modi nuovi per rapportarsi con il pubblico. Funzionano?
«Chi viene è molto soddisfatto e assiduo nella partecipazione. Dopodiché non posso non rimarcare che la vita quotidiana del giorno d’oggi non permette a molte persone di liberarsi per le 18.30. In altri paesi europei l’attività culturale inizia un po’ prima, e questo è evidentemente consentito anche da un sistema in cui la vita lavorativa, familiare, i trasporti, ecc. sono organizzati in modo più coerente e corrispondente alle istanze di fruizione dell’offerta culturale. Da noi si fa fatica a innescare un’“onda verde” che possa agevolare la mobilità delle persone. Insomma, non vogliamo che quelli che vengono a concerto diventino degli eroi!»

A proposito di imprese eroiche, l’Unione Musicale non è nuova alle integrali: quali ricorda con maggior soddisfazione?
«Forse non casualmente, la prima programmazione di cui mi occupai in Unione Musicale fu proprio un ciclo pianistico dedicato a Schumann, nel 1988-89. Ma una delle integrali di cui vado più orgoglioso è quella dei madrigali di Monteverdi, che credo neanche a Cremona o Mantova sia stata mai realizzata, se non in una forma molto diluita. L’integrale su cui punto di più è invece quella, tuttora in corso, dei Lieder di Schubert, che è un’autentica follia (si tratta di 604 numeri d’opera!); per completarla ci vorranno ancora due o tre anni, ma sarà la prima volta al mondo. Neanche in Germania l’hanno mai tentata…»

Simone Solinas