La storia del Quartetto Belcea, lunga 25 anni, è costellata di riconoscimenti, incisioni e cambiamenti. Al suo ritorno a Torino il 27 marzo, per la stagione dell’Unione Musicale, si presenta con una formazione nuova rispetto a quella dell’ultima esibizione torinese nel 2015: i fondatori Corina Belcea-Fisher (violino) e Krzysztof Chorzelski (viola) sono affiancati da Axel Schacher (violino) e Antoine Lederlin (violoncello).
Maestro Chorzelski, in questi anni com’è cambiato il Quartetto Belcea?
«Nella vita di un quartetto d’archi la partenza e l’arrivo di un componente è un terremoto, dirompente e stimolante. Nel nostro caso abbiamo un forte legame, ci rafforziamo a vicenda e le dinamiche interne al gruppo condizionano le interpretazioni. Rispetto alle origini, l’identità del Quartetto è cambiata, ma c’è qualcosa che è rimasta uguale: i membri provengono da paesi, scuole e tradizioni diversi. Credo che questa varietà insieme al desiderio condiviso di suonare al meglio siano diventati i nostri punti di forza. C’è sempre stato un equilibrio tra il temperamento dell’Europa orientale rappresentato da Corina e da me e un approccio molto diverso alla musica, forse più ponderato e raffinato, da parte dei colleghi dell’Europa occidentale. Questo si nota nella nostra attuale formazione: le differenze arricchiscono il nostro modo di suonare, ne scaturisce una tensione che in un certo senso ci spinge a superare i nostri limiti, a divertirci nel rischiare».
Anche a Torino, come fate spesso, proporrete un Quartetto di Haydn: cosa vi attrae della sua musica?
«Amiamo Haydn e pensiamo che sia molto difficile da interpretare. Siamo cresciuti ascoltando Haydn interpretato dai nostri mentori: i Quartetti Amadeus e Alban Berg. Da allora c’è stata una rivoluzione, un tentativo di avvicinare l’interpretazione della musica di Haydn allo spirito del suo tempo, quando i quartetti erano una forma sofisticata di intrattenimento domestico, una sorta di dialogo tra amici e non pezzi da eseguire per un pubblico numeroso. Haydn fu ovviamente il creatore di questo genere e il suo interprete supremo. Siamo molto interessati a ciò che questa “rivoluzione” comporta; stiamo sperimentando archetti in stile più antico per vedere che tipo di suono e articolazione producono, ma continuiamo a suonare strumenti moderni: non possiamo suonare Haydn su corde di budello quando la stessa sera eseguiamo, per esempio, Britten! Il nostro è un compromesso necessario. Per me la principale difficoltà sta nell’ottenere l’innata libertà e il senso del divertimento tipico di questa musica in una grande sala da concerto. Questi pezzi sono l’essenza della musica da camera, ci deliziano e ci ispirano, quindi continueremo a provare!»
Eseguirete anche una pietra miliare del vostro repertorio: il Quartetto n. 3 di Britten. Che rapporto avete con quest’opera?
«Abbiamo suonato questo pezzo, che occupa un posto molto caro nei nostri cuori, fin dai primi giorni di vita del Quartetto Belcea e l’abbiamo studiato con i membri del Quartetto Amadeus, per i quali il lavoro è stato scritto. La pagina è molto peculiare: ha relativamente poche note. Forse il suo tono di commiato e la sua sobria bellezza sono più facili da percepire man mano che invecchiamo…»
Anche il Quartetto op. 132 di Beethoven è un pezzo “da meditazione”…
«Per me l’op. 132 è il più enigmatico dei Quartetti di Beethoven: giustappone grande spiritualità a uno strano senso dell’umorismo. Questa mutevolezza si nota bene nel passaggio dal terzo al quarto movimento, cioè dal Dankgesang, basato sui modi gregoriani, alla Marcia, così visionaria. In seguito, la Marcia è lasciata a metà e letteralmente invasa da un frenetico recitativo che ricorda la Nona Sinfonia. Il movimento successivo – Finale – infatti fu originariamente concepito come ultimo movimento della Nona (e quanto sarebbe stata diversa!). In una biografia di Beethoven che ho letto di recente, Ian Swafford trova una connessione tra l’op. 132 e gli scritti di E.T.A. Hoffmann, narratore che Beethoven ammirava molto. Hoffmann è stato un pioniere del genere fantasy che ha segnato il Romanticismo tedesco. Forse nello spirito dei suoi racconti si trova una delle chiavi per decifrare i misteri del tardo stile di Beethoven».
Liana Püschel