Alexander e Alexandre. Uno stesso nome per due pianisti diversi in tutto, e provenienti da mondi sideralmente lontani. La radice di Alessandro è il verbo greco αλεξω, che significa difendere, aiutare ma anche scacciare, respingere, quindi l’etimologia del nome può indicare sfumature diverse: il protettore degli uomini, oppure colui che allontana gli uomini.
Alexander Romanovsky (mercoledì 16 ottobre, Conservatorio, ore 21) sembra iscriversi senz’altro al primo gruppo. Arrivato in Italia a soli tredici anni per seguire il suo maestro Leonid Margarius all’Accademia Pianistica di Imola, Romanovsky nasce nel 1984 a Kam’ians’ke, una città industriale dell’Ucraina, allora ancora nella sfera dell’Unione Sovietica, nota soprattutto per essere la patria del segretario del Partito comunista Leonid Brežnev. Per completare il quadro, negli anni del regime il nome della città era stato cambiato in onore del famigerato creatore della polizia segreta sovietica, Feliks Dzeržinski. In altre parole, è un mistero come sia potuto fiorire in un luogo tanto plumbeo e immerso nelle durezze della storia un artista così sensibile e ricco di pura poesia come Romanovsky, rimasto a vivere in Italia dopo gli anni di Imola e soprattutto dopo la clamorosa vittoria al Concorso Busoni nel 2001, a soli diciassette anni. Meglio di lui aveva fatto solo Martha Argerich, primo premio a sedici nel 1957, ma Alexander si era preso la rivincita con la nomina a quindici nell’Accademia Filarmonica di Bologna, un onore toccato in precedenza alla stessa età unicamente a Mozart e Rossini. Sarà perché ha vissuto sulla sua pelle il peso e la fatica di una gioventù immolata sull’altare di uno studio “matto e disperatissimo”, Romanovsky si è impegnato moltissimo in questi anni per aiutare i giovani pianisti di oggi a emergere e ad affermarsi nella vita professionale, soprattutto come direttore artistico di un concorso internazionale a Mosca intitolato al grande pianista Vladimir Krainev. Il suo modo d’intendere l’arte del pianoforte discende direttamente da Vladimir Horowitz, e si potrebbe sintetizzare nel motto “virtuosismo più umanesimo”.
L’altro Alexandre (mercoledì 23 ottobre, Conservatorio, ore 21), invece, è un geniale esempio di narcisismo, inteso in senso buono ovviamente, ossia come un artista talmente apollineo da immergersi fino in fondo nella propria realtà interiore. Le origini di Tharaud sono radicate nel mondo artistico parigino, mamma ballerina all’Opéra e papà teatrante. La musica per Alexandre è sempre stata una danza leggera. L’epica del duro lavoro non gli appartiene, al punto da dichiarare di non tenere in casa un pianoforte e di studiare dove capita, in albergo o a casa di amici. Si concede volentieri a telecamere e macchine da presa, innamorato del suo fisico da attore e sicuro del suo fascino intellettuale. Un retaggio della sua fase bohèmienne, probabilmente, è l’abitudine di recarsi al cimitero di Montparnasse prima di entrare in sala di registrazione (a cinquant’anni può già vantare una discografia con pochi confronti), per lasciare un fiore sulla tomba di Emmanuel Chabrier, forse il più grande pianista della musica francese e il meno celebrato dei suoi innovatori. Non importa se l’aneddoto sia vero o no, è significativo che Tharaud l’abbia immaginato. Insomma, Alexandre è un dandy, un Robert de Montesquiou del pianoforte, ma in una forma assolutamente moderna e con un istinto infallibile per la perfezione dell’immagine, come testimonia l’irresistibile serie di fotografie intitolate Contorsions, in cui si vedono le sue mani piegarsi come gomma e assumere pose coreografiche. Queste immagini sono il perfetto corrispettivo dell’elegante elasticità delle sue interpretazioni, agili e nevrotiche come quelle di un Puck elettrico. Ascoltate com’è viva e colorita nelle sue mani la musica del Settecento francese, tanto che par di sentire la voce di Voltaire. All’altro capo del filo, su cui Tharaud volteggia in questo programma con identica souplesse e flessibilità, c’è il pianoforte di Ravel, erede di quel mondo e custode del suo “esprit de géométrie” in mezzo alle burrasche scatenate dalle avanguardie del primo Novecento.
Oreste Bossini