Una scalata e contemporaneamente un’immersione. Una scalata, perché le sei Suite per violoncello solo di Johann Sebastian Bach sono ordinate secondo una chiara progressione, un crescendo di difficoltà e complessità. Però anche un’immersione, perché questa musica, ricchissima nella sua scarna essenzialità, chiede all’esecutore un profondo lavoro di introspezione e di ricerca, anche sul piano spirituale. Ecco perché ogni esecuzione integrale delle Suite sprigiona un fascino magnetico, fuori dal tempo. Se poi a cimentarsi nell’impresa è Massimo Polidori, primo violoncello dell’Orchestra del Teatro alla Scala, i motivi di interesse non fanno che moltiplicarsi.
Il violoncellista torinese eseguirà i capolavori bachiani in due appuntamenti, entrambi inseriti nella stagione di concerti dell’Unione Musicale: il primo, mercoledì 13 marzo, sarà dedicato alle suite 1, 3, 5. La serata di mercoledì 15 maggio, invece, ruoterà attorno alle suite 2, 4, 6. Abbiamo approfittato dell’occasione per una chiacchierata con il maestro Polidori. Su Bach, ma non solo.
Maestro, qual è l’importanza delle Suite di Bach nella vita di un violoncellista?
«Per noi le Suite sono quasi un “testo sacro”. Questa musica ci accompagna per tutta la vita, dai primi anni di studio fino all’età più matura. Se dovessimo trovare un paragone, potremmo dire che le Suite sono la Divina Commedia del violoncello. L’aspetto incredibile è che, esplorandole, non si finisce mai di trovarvi spunti, elementi di interesse, nuove chiavi di lettura. E bisogna essere costantemente pronti a rimettersi in discussione: mi capita di ritornare su alcune decisioni prese in passato (ad esempio riguardo a colpi d’arco, cadenze o tempi d’esecuzione) e accorgermi che oggi non rispecchiano più il mio pensiero. Serve, insomma, una continua revisione».
Una condizione a tratti un po’ frustrante?
«In un certo senso sì, ma è nella natura del nostro lavoro. E d’altra parte il primo violoncellista a raccontare questo stato di perenne “provvisorietà” è stato proprio Pau Casals, il grande divulgatore delle Suite, al quale tutti dobbiamo essere grati. Certo, nel tempo il gusto esecutivo è cambiato e si è, per così dire, approfondito, ma tutto questo non sarebbe avvenuto se ad aprire la strada non ci fosse stato un pioniere come Casals».
A proposito, nel corso dei decenni le Suite sono state oggetto di interpretazioni molto diverse: c’è chi ha sottolineato l’importanza di un approccio filologico e chi, invece, ha rivendicato esecuzioni più libere. Qual è la sua posizione?
«Credo che l’aspetto più importante sia la comprensione del linguaggio, cioè l’equilibrio tra l’armonia, il ritmo e la polifonia delle voci, sempre implicita in questo tipo di scrittura. Sicuramente l’arco barocco facilita un certo tipo di articolazioni. Personalmente ho scelto di usare un arco moderno, che si presti però alla leggerezza. Ma soprattutto dedico grande attenzione ai segni che si trovano sul manoscritto di Anna Magdalena, a partire da quelli riguardanti le arcate. Queste indicazioni sono un’ossatura, una disciplina sulla quale poi mi muovo con una certa libertà».
Ciascuna delle sei Suite esprime un ambiente sonoro peculiare. Ce n’è una che lei considera particolarmente affine alla sua sensibilità (in generale o in questo momento della sua vita)?
«Per l’occasione ho ristudiato la Quinta suite con la “scordatura” [la corda più acuta suona un sol, anziché, come d’abitudine, un la, ndr], una caratteristica che permette di eseguire gli accordi nella versione originale e che dona al violoncello un timbro più scuro, più intimo, quasi uno Sturm und Drang interno. Forse questa è la Suite che, insieme alla Quarta, attualmente mi impressiona di più, per le possibilità di introspezione e di scavo».
Sentendola parlare, si intuisce una passione davvero grande per Bach…
«Per questo autore ho un amore irrefrenabile, che mi accompagna fin dagli anni dell’adolescenza. È in assoluto il compositore che mi commuove di più, che mi scuote dall’interno. Quando studio la sua musica non mi accorgo del tempo che passa. E, solo mentre eseguo Bach, a volte riesco a essere contemporaneamente esecutore, spettatore e critico di me stesso: è quasi come se facessi anch’io parte del pubblico. Tra l’altro, il mio interesse per Bach non si limita alle sei Suite. In questo periodo mi sto cimentando con un altro esperimento molto interessante: l’esecuzione, in trio con Laura Marzadori (violino) ed Elena Faccani (viola) di una trascrizione delle Variazioni Goldberg. In primavera uscirà anche l’incisione discografica».
In passato, durante le sue esecuzioni delle Suite, lei ha sperimentato la collaborazione con coreografi e ballerini. Che cosa le ha lasciato questa esperienza?
«La prima volta in cui ho lavorato con il balletto è stata alla Scala, con le coreografie di Heinz Spoerli. All’inizio è stata un’esperienza un po’ scioccante, perché ho dovuto stravolgere le mie convinzioni, soprattutto riguardo all’andamento dei movimenti: in generale mi venivano richiesti tempi più veloci rispetto a quelli cui ero abituato. Però è stata un’esperienza utilissima, perché mi ha permesso di lavorare sull’idea della danza, che è alla radice stessa di questa musica. Dovendo far coincidere un gesto musicale con un gesto fisico, ho compreso più a fondo alcuni aspetti: ad esempio, che la pulsazione sottesa ai diversi movimenti non deve mai cedere, ma deve essere sempre fluida e rotonda. E mi sono tornate in mente le parole di Antonio Janigro, uno dei mie maestri. Agli allievi che eseguivano Bach amava ripetere “Ricorda che un ballerino non può rimanere in aria”».
Eseguirà le Suite a Torino, la sua città. Che valore ha questo ritorno a casa?
«Lo vivo con affetto e con gioia. L’idea di suonare nel Salone del Conservatorio mi fa ritornare con la memoria agli anni della mia prima formazione: anni molto stimolanti e pieni di euforia. Penso ai miei maestri, primo fra tutti Renzo Brancaleon, che è mancato l’anno scorso. E penso anche ai miei compagni di corso (tra loro, Enrico Dindo). In quel periodo, come del resto anche oggi, il Conservatorio del capoluogo piemontese era una fucina in fermento. A sedici anni ho partecipato alla rassegna nazionale di Vittorio Veneto aperta a tutti gli studenti dei Conservatori italiani e in quell’occasione ho vinto la borsa di studio intitolata alla memoria di Giovanni Camerana per la migliore esecuzione proprio di una Suite di Bach. Subito dopo sono stato tra i beneficiari di una borsa di studio della De Sono, quando ancora l’associazione non era stata costituita. Anche per questi motivi suonare a Torino per me significa esprimere un debito di gratitudine verso chi da anni lavora per promuovere la cultura in questa città».
Con l’Unione Musicale, poi, c’è un sodalizio particolare, che dura da anni…
«Certo, anche a questa istituzione mi sento molto legato. Ricordo benissimo di quando andavo, da spettatore, ad ascoltare i grandi interpreti che, grazie all’Unione Musicale, arrivavano in città: maestri del calibro di Isaac Stern o Mischa Maisky. A volte facevo le code fin dalle tre del mattino per prendere l’abbonamento! Ritrovarmi ora “dall’altra parte” fa un certo effetto. Ma è anche una grande soddisfazione».
Lorenzo Montanaro