La curiosità è il propellente dell’arte.
Trent’anni di Trio Debussy

Il Trio Debussy compie trent’anni. Quando Piergiorgio Rosso, Francesca Gosio e Antonio Valentino scelsero di unirsi in ensemble, erano studenti di conservatorio. Oggi insegnano e suonano in tutto il mondo, felicemente insieme, senza stancarsi di ideare progetti sempre nuovi. Il che rappresenta uno dei motivi di questa longevità da record…

«La curiosità – spiega Antonio Valentino – è il propellente dell’arte. Il Trio Debussy ha sempre avuto voglia di toccare ambiti espressivi poco frequentati, di vivere esperienze multidisciplinari, di affrontare prime esecuzioni. Da tutto questo ha ricavato vitalità».

Cos’è, invece, che in trent’anni non è mai cambiato?
«L’approccio allo studio, la costanza profusa in prova. Anche l’entusiasmo, nonostante le difficoltà inevitabili. Certamente, del nostro quotidiano sono entrati a far parte, col tempo, altri aspetti. Oggi riceviamo impulso, per esempio, dal confronto con i nostri allievi».

Avete puntato su una formazione da camera, quella del trio con pianoforte, non esattamente popolare…
«Lo sappiamo. Ricordo che Berio, una volta a Roma, mi disse di non aver mai scritto per questo organico perché considerava la cosa troppo difficile, soprattutto per la presenza del pianoforte. Ho sperato cambiasse idea e componesse, finalmente, per noi. Ma non ne ebbe il tempo…»

Che cosa c’è di “difficile”, secondo lei?
«Il fatto stesso che il trio con il pianoforte abbia una storia recente e una tradizione ancora da consolidare. Sul quartetto d’archi si lavora da oltre due secoli e la timbrica degli archi è stata studiata a fondo. Quanto alla nostra formazione, prima del Trio di Trieste c’era quasi il vuoto».

Per voi, De Rosa-Zanettovich-Lana/Baldovino hanno costituito un riferimento…
«Per almeno quattro anni siamo stati, artisticamente parlando, figli del Trio di Trieste, apprendendo il mestiere dai migliori artigiani possibili. Con il Trio Schubert, abbiamo studiato in modo diverso. A Vienna, infatti, si parlava di musica ma anche di filosofia».

L’Unione Musicale è casa vostra…
«Da ventisette anni! Belli i primi tempi, in una Torino culturalmente vivacissima. All’inizio suonavamo per i giovani e Baricco introduceva i nostri concerti… Siamo stati fortunati a far parte di quella stagione e a trovare partner tanto disponibili».

Oggi, forse, il clima e il pubblico sono cambiati ovunque…
«Onestamente sì. L’ascoltatore medio insegue una comfort zone rassicurante, e l’interprete spesso preferisce evitare slanci fuori norma… Ne vengono fuori letture tecnicamente pulite, ma poco animate, anche dinamicamente. Credo che si possa fare di più per coinvolgere la platea!».

Il programma del vostro prossimo concerto a Torino (mercoledì 8 maggio, Conservatorio, ore 21) è quasi una compilation di pezzi del cuore…
«Esatto! Schubert per noi è, da sempre, oggetto di studio inesauribile: questione di affinità elettive. L’op. 120 di Fauré è una pagina strepitosa, non si capisce perché così poco eseguita. Infine, rendiamo omaggio a “papà” Haydn, senza il quale forse non esisterebbe il trio con il pianoforte».

Stefano Valanzuolo