La forza del gesto: il Trio di Parma fa incontrare Beethoven e Kagel

Ludwig Van Beethoven e Mauricio Kagel: autori distanti eppure anche vicini, molto più di quanto, a prima vista, si possa credere. Lo dimostra un interessante e coraggioso progetto proposto dal Trio di Parma (Ivan Rabaglia violino, Enrico Bronzi violoncello, Alberto Miodini pianoforte).
In questo anno sfortunato, l’Unione Musicale ha programmato i sei trii più importanti del genio di Bonn messi in correlazione con tre lavori per il medesimo organico scritti da Kagel (il quale, pur essendo una voce di prima grandezza nel panorama compositivo del secondo Novecento, è ancora poco noto in Italia, soprattutto nella sua dimensione cameristica).

Approfondiamo il significato e il valore di questa scelta con il maestro Enrico Bronzi, violoncellista del Trio di Parma.

Maestro Bronzi, da dove nasce la decisione di accostare i trii di Beethoven a quelli di Kagel?
«Con l’avvicinarsi del duecentocinquantesimo anniversario dalla nascita, in molti stanno concentrando la loro attenzione su Beethoven. A noi è parso interessante far emergere in questo genio assoluto della musica quegli aspetti che lo legano alla modernità. Va sottolineato che Kagel è autore del film “Ludwig Van”, del 1970, la cui musica rielabora in maniera originale frammenti beethoveniani. È la testimonianza di un amore profondo e sincero verso il compositore di Bonn. Ed è un lavoro da cui traspaiono grande ironia e finezza: consigliamo a tutti di guardarlo».

Le affinità non si fermano qui: Kagel è noto per la sua concezione teatrale della musica: un’idea che, pur con le dovute differenze, riconduce a Beethoven. Possiamo quindi dire che i due compositori si incontrano anche sul terreno del teatro?
«Sicuramente entrambi attribuiscono grande importanza alla forza del gesto strumentale. Pare che il movimento centrale del Trio “degli spettri” sia nato da un’idea di musica di scena per il Macbeth di Shakespeare. Più in generale, in Beethoven ogni elemento ha molto a che fare con una caratterizzazione: rompendo con l’espressività legata agli stilemi del primo mondo classico o più ancora del precedente ambiente galante, il compositore approda a una scrittura in cui ogni frase ha un suo carattere forte e riconoscibile. Certamente anche Kagel è molto legato alla concezione teatrale, benché, in questa fase della sua produzione, si tratti di un teatro meno fisico e più sublimato. Diciamo, un teatro puramente musicale».

Nel 2012 il Trio di Parma ha inciso, per “Amadeus”, l’integrale dei trii di Beethoven. Che cosa vi rimane di quell’esperienza?
«Sicuramente affrontare il repertorio beethoveniano integralmente costituisce per un gruppo un passaggio fondamentale. In queste partiture il trio è un’alchimia di strumenti dosati sempre in modo peculiare e con una logica che può essere cangiante. Negli Spettri (op. 70 n. 1) o nell’op. 70 n. 2 abbiamo, ad esempio, a tratti una scrittura quasi quartettistica, a tratti una concezione sinfonica e un istante dopo un momento di puro contrappunto. È una musica che chiede di essere camaleontici, immedesimandosi, di volta in volta, nelle diverse situazioni. Dunque immergersi in questo mondo costituisce una delle basi per la formazione del suono di un trio».

I Trii di Kagel sono invece molto meno noti. Che cosa può dirci di questi lavori?
«Sono opere interessantissime e di grande fascino. Fanno parte del linguaggio più maturo del compositore, ormai allontanatosi dall’esperienza di Darmstadt. Molti autori nel Novecento si sono trovati in difficoltà a scrivere per trio, perché veniva percepito come la formazione ottocentesca per antonomasia. Trovo che invece Kagel ci riesca in modo straordinario, generando un suono totalmente riconoscibile, con una scrittura che continuamente scarta dalla poesia più alta alla dimensione dell’ironia  e della parodia».

Fondato nel 1990, il Trio di Parma si prepara a festeggiare un compleanno “tondo”. Ripensando a questi trent’anni di attività e ai vostri tantissimi traguardi, c’è un momento che ritenete particolarmente significativo per la storia del gruppo?
«Credo che la storia di un complesso sia un po’ l’antitesi rispetto all’idea dell’evento. La chiave di volta è, invece, proprio quella della continuità. Ciò che è sorprendente, in questa esperienza, è la possibilità di ripartire ogni volta da un vissuto comune su cui costruire. Può sembrare un paradossale, ma nei gruppi stabili si discute molto di più che negli incontri occasionali. Questo è nella natura della musica da camera: tutto tranne che un quieto “darsi ragione”. Al contrario, è il luogo del confine sensibile, dove la propria individualità entra in contatto e spesso anche in collisione con quella altrui, dove le proprie certezze devono essere continuamente messe alla prova. Tutto questo richiede una grande disciplina interiore e un estremo rispetto per gli altri».

I vostri concerti per l’Unione Musicale sono ormai una tradizione. Quale rapporto vi lega all’istituzione torinese?
«Per noi l’Unione Musicale è una delle “società del cuore”, una di quelle realtà in cui ci si sente a casa. Personalmente, occupandomi anche di programmazione, spesso mi confronto con questa istituzione sul terreno delle scelte artistiche. Ed è sempre un dialogo gradevole e profondo. Inoltre apprezziamo il fatto che l’Unione Musicale ci dia la possibilità di proporre programmi con una forte originalità, come appunto quelli che eseguiremo nei prossimi concerti».

Lorenzo Montanaro