È un astro nascente del violoncello, a livello mondiale. 22 anni, origini bulgare e cinesi, ma una vita negli Stati Uniti, Zlatomir Fung è tra gli interpreti più in vista della nuova generazione e ha già collezionato una serie di riconoscimenti e successi da lasciare sbalorditi. Mercoledì 15 dicembre (ore 20.30), nel salone del Conservatorio, lo potremo ascoltare in duo con il pianista Richard Fu, per la prima volta ospite dell’Unione Musicale, con un repertorio per nulla scontato.
Maestro Fung, lei è il primo americano in quattro decenni e il più giovane musicista in assoluto ad aver vinto il primo premio al Concorso Internazionale Čajkovskij (violoncello). Che cosa rappresenta per lei questo incredibile risultato? Come ha cambiato la sua carriera?
«Vincere il Concorso Čajkovskijè stato per me un grande onore e un grande riconoscimento. Sognavo di parteciparvi fin da quando vidi per la prima volta il premio, trasmesso on-line. Era il 2011 e avevo 12 anni. Ho sempre vissuto i concorsi come opportunità per portare la mia pratica musicale a livelli più elevati. E il Čajkovskij è stato senz’altro il momento più intenso in questo percorso. Vincere il primo premio ha segnato una tappa fondamentale nella mia carriera, vista la portata globale del Concorso, in termini di storia e di nome. Da allora mi si sono dischiuse incredibili possibilità di connettermi con il pubblico in tutto il mondo».
Lei è un violoncellista americano, ma con origini bulgare e cinesi. Questa ricchezza culturale ha in qualche modo condizionato il suo approccio alla musica? E l’ha aiutata a esplorare stili e repertori differenziati?
«Penso che la mia eredità etnica, combinata con l’educazione negli Stati Uniti, mi abbia dato un retroterra culturale molto interessante. A dire il vero, nessuno dei miei genitori è musicista e suona uno strumento seriamente, ma tra i miei parenti, sia per parte paterna che materna, ci sono poeti, artisti e insegnanti. Mi ritengo fortunato a provenire da un contesto culturale nel quale le arti e lo studio sono apprezzati. Quanto al mio percorso musicale, credo, però, di dovere quasi tutto al fatto di essere cresciuto negli Stati Uniti, dove naturalmente è molto forte l’influenza delle grandi tradizioni europee».
A Torino eseguirà, tra l’altro, la sonata per Arpeggione di Schubert, una montagna da scalare, che da sempre mette alla prova i più grandi violoncellisti, poiché richiede una straordinaria maestria tecnica unita a una profonda musicalità. Come si accosterà a questo capolavoro?
«La sonata per Arpeggione è una tra le opere più ricche che un violoncellista abbia l’onore di eseguire. A renderla così difficile credo sia la necessità di farla suonare semplice, pura e innocente, proprio nei momenti tecnicamente più impegnativi. Quindi, per l’esecutore, la sfida è quella di trascendere le difficoltà tecniche per concentrarsi interamente sulla profonda espressività musicale che sta al di sotto. Vorrei quindi approcciare questo lavoro con molta libertà, cercando momenti di canto e di lirismo. Credo che questo sia d’aiuto per non pensare troppo agli aspetti tecnici».
Il concerto si apre con i temi da “Little Russian Songs” di David Popper, compositore ben noto ai violoncellisti (visto anche il suo fondamentale contributo allo sviluppo della tecnica) ma non altrettanto conosciuto dal grande pubblico. Perché ha scelto proprio Popper?
«C’è un segmento del repertorio dedicato al mio strumento nel 19esimo secolo per il quale ho una speciale passione: mi riferisco ai brani virtuosistici scritti dai più grandi violoncellisti dell’epoca. Penso sia un vero peccato che questi lavori non siano eseguiti più spesso. E lo penso per due ragioni. Primo, perché, come nel caso di quest’opera di Popper, abbiamo tra le mani musica stupenda! Secondo, perché non sono d’accordo con chi ritiene che il virtuosismo sia una forma minore di espressività esecutiva. L’esperienza di un esecutore dovrebbe risvegliare nel pubblico sentimenti grandi e memorabili. Nel caso dei pezzi virtuosistici, questi sentimenti hanno a che vedere con l’osare, con un grande coraggio, unito a un po’ di paura. Da ascoltatore, queste esperienze sono tra le mie preferite, perciò spero di condividerle con chi viene ai miei concerti».
Lei è sia un grande solista sia un apprezzato camerista. A Torino suonerà in duo con il pianista Richard Fu. Che cosa può dirci di questa collaborazione artistica? E, più in generale, che cosa la attrae nella musica da camera?
«Con Richard Fu ci siamo conosciuti frequentando entrambi la Julliard School. Lui stava studiando per diventare pianista accompagnatore e infatti attualmente lavora soprattutto con i cantanti. In realtà, all’inizio si era iscritto alla facoltà di legge, ma poi ha riscoperto la sua passione per la musica e per il pianoforte. Ecco perché porta con sé una profonda umiltà nell’approccio alla musica, senza un ego eccessivo e senza simulazioni. La musica da camera è stata da sempre la mia più grande passione, anche perché è quella da cui ho imparato di più. Nella musica da camera, il più importante legame tra gli strumentisti sta nel fatto che si ascoltano continuamente e che in ogni momento reagiscono l’uno all’altro. Nel duo violoncello/piano c’è una profonda intimità nel modo in cui i suoni dei rispettivi strumenti interagiscono. Quando suono un concerto con l’orchestra, vivo un’esperienza molto più significativa se la considero musica da camera su larga scala. Come diceva il grande violinista Isaac Stern, “la musica da camera è il cuore di tutta la musica”».
Lorenzo Montanaro